Guerriglia

Nell’aprile 1941 la situazione dell’esercito italiano in Africa orientale era disperata. Dopo 6 lunghi giorni di resistenza, l’esercito italiano viene spazzato via dagli inglesi. Asmara viene dichiarata città aperta dal generale Frusci. Firmata la resa, si creò una situazione di disordine e spaesamento nella vecchia colonia. Era dunque giunto il momento di prendere un decisione, una decisione radicale, imprevedibile. L’ordine di resa impartito da Roma era vincolante per gli italiani, ma per gli indigeni non era necessariamente così, dato che per loro Roma non era altro che un concetto astratto. Gli indigeni erano legati all’autorità locale, detentrice di potere e di valori che corrispondevano alla loro cultura: valori come il coraggio, la dedizione, il sacrificio. Toccava a Guillet continuare a rappresentare quei valori per i suoi ex soldati e per gli indigeni che gli erano rimasti fedeli. Senza soluzione di continuità tra passato e presente.

La sostituzione di ciò che gli rimaneva dei suoi indumenti da europeo, con una futa e il turbante avvolto intorno al capo, fu l’inizio di un mutamento esteriore e interiore, con il quale prendeva forma e contenuto quell’Ahmed Abdallah Al Redai, musulmano yemenita, soldato smobilitato dalle truppe coloniali italiane, in attesa di rimpatrio. Riunì i suoi uomini, definì e spiegò le condizioni del suo piano di guerriglia: avrebbero portato avanti operazioni solo contro obiettivi militari, non sarebbero stati ammessi atti di banditismo e taglieggio della popolazione. Non poteva promettere loro altro che una vita di sacrifici e di stenti ma le loro imprese avrebbero portato onore agli stessi e alle loro famiglie. Non poteva promettere una paga, non prima che l’Eritrea fosse tornata sotto il dominio italiano. Chi non fosse stato disponibile a sottostare a queste condizioni, era obbligato ad andarsene. Nessuno accennò a muoversi. Iniziarono così otto lunghi mesi di guerriglia.

Si nascose, insieme a Kadija, in una fattoria italiana ad Asmara dove prestò opera come bracciante al servizio del Signor Rizzi, l’unico italiano con cui era rimasto in contatto. Lì sarebbe passato inosservato fra i molti indigeni che prestavano la opera nelle terre della fattoria. Amedeo soffriva per la ferita al piede e per quanto si impegnasse, coltivava molta difficoltà a portare a termine il suo lavoro giornaliero. Il Signor Rizzi se ne era reso conto, per questo gli aveva affidato nuove mansioni: come giardiniere del giardino di sua moglie e di controllo nei campi di banane e papaia. Durante il soggiorno nella fattoria, Guillet si allontanava di tanto in tanto per qualche operazione di guerriglia, abilmente coperto dal Signor Rizzi che si occupava di diffondere voce, tra gli altri operai, che l’assenza di Ahmed era dovuta a compiti affidatigli fuori dalla fattoria dallo stesso proprietario.

Così la Banda Guillet continuava a portare avanti una battaglia senza quartiere contri gli inglesi: sabotando ferrovie, tagliando linee telegrafiche, facendo saltare ponti e saccheggiando depositi militari. Le loro azioni vennero attribuite, in un primo momento, a fuorilegge locali, a banditi del deserto; poi la stampa iniziò ad intuire qualcosa e le attribuirono proprio al tenente Guillet, creando un mito, il mito del “Cummandar es Sciaitan” (il Comandante Diavolo). Lo storico Luigi Goglia spiega così il soprannome dato a Guillet dai suoi compagni indigeni: “Lo chiamavano comandante diavolo perché era un diavolo di comandante, nel senso che era coraggioso e riusciva nelle sue imprese. Un nome ironico, ma allo stesso tempo di ammirazione, datogli dai suoi ascari” .



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