Al Sayed Ibrahim al Yemani, era diretto a Barasol per barattare carne secca con farina e caffè.Era una notte di luna piena che illuminava il suo solito percorso di un’intensità unica. Montando la sua cavalcatura incedeva, ondeggiando, sulle dune del deserto dancalo. Nel silenzio e nelle frescure delle tenebre, da dietro un avvallamento sentì ergersi una voce che gli intimava di fermarsi, in nome di Allah. Sayed Ibrahim conosceva bene le insidie del deserto, così emise una serie di rumori gutturali per far “barricare” il suo cammello, scese e si presentò. A terra trovò davanti ai suoi occhi due uomini moribondi, vestiti solo di una camicia, l’uno dal volto tumefatto, l’altro sanguinante da una profonda ferita sul capo. Camminò per un poco, avanti e indietro per decidere cosa fare, poi prese dell’acqua e ne versò accuratamente nella bocca dell’uno e dell’altro. Prese del pane azzimo, che masticò prima di imboccarli, in modo tale che potessero semplicemente deglutire, considerato che non erano in condizione di masticare. Pian piano, i due sventurati che si erano dichiarati yemeniti, iniziarono a riprendere conoscenza e a proferire qualche parola. Si presentarono: l’uno come Ahmed Abdallah, l’altro come Daifallah.

Daifallah, che tra i due era quello con più forze, iniziò a raccontare come si fossero ritrovati sperduti nel deserto, in seguito ad un tentativo fallito di attraversare il Mar Rosso, a bordo di un sambuco di contrabbandieri, per raggiungere la propria patria. Raccontò di come questi, temendo di essere denunciati, li avevano gettati in mare. Raccontò del loro incontro con dei pastori dancali che, accanendosi, li bastonarono ripetutamente. Sayed Ibrahim, da buon samaritano, invertì la rotta del suo viaggio, fece salire sulla cavalcatura i due moribondi e ripresero il viaggio, questa volta verso la sua dimora. Quei poveri sventurati, nei giorni che trascorsero nella dimora di Sayed Ibrahim, raccontarono più volte le loro avventure. Sayed Ibrahim non aveva dubbi sulla veridicità delle storie da loro raccontate e continuava ad osservare incuriosito quell’uomo che si faceva chiamare Ahmed Abdullah. Quell’uomo che doveva essere “un figlio di buona famiglia”. Ponderò a lungo prima di proferire quella proposta, che aveva tenuto in riserbo nell’attesa di valutare fino in fondo l’uomo che aveva di fronte.

Dietro al nome di Ahmed Abdallah si celava, in realtà, il tenente Amedeo Guillet. Il tenente, dopo aver prestato servizio per l’esercito italiano in Eritrea e dopo la firma della resa italiana con gli inglesi, aveva deciso di continuare a combattere, sferrando continui attacchi di guerriglia coadiuvato dalla sua Banda di soldati indigeni. Riuscì a mimetizzarsi e ad evitare la cattura, grazie al travestimento indigeno, ai tratti mediterranei e alla perfetta conoscenza dell’arabo. Cambiò identità assumendo quella di Ahmed Abdallah al Redai, soldato yemenita rimasto bloccato in Eritrea a causa della guerra.

La proposta che Sayed Ibrahim fece ad Amedeo era quella di rimanere a vivere lì, con la sua famiglia, sino alla fine della guerra, quando i rischi che avrebbe corso per raggiungere lo Yemen sarebbero stati dimezzati. L’avrebbe aiutato a raggiungere Massawa da dove, era certo, partisse una nave chiamata Adua diretta a Hodeida. Gli propose inoltre di sposare sua figlia, la quale lo avrebbe seguito quando avrebbe deciso di fare ritorno in patria. Amedeo fu tentato di accettare: doveva a quell’uomo la riconoscenza per averlo strappato da una morte certa, in quel deserto nel quale solingo, dopo anni di battaglie e avventure, aveva perso una parte di se stesso, quella parte più formale e occidentale, e ne aveva forgiata una nuova, nella quale aveva rinnovato il legame con quei valori fondanti che lo avevano guidato, da sempre. Valori che aveva vissuto insieme a quella Terra, all’apparenza tanto selvaggia, sterile e desolata ma alla conoscenza, tanto coraggiosa, piena di dignità e onestà. Fermarsi e concedersi il silenzio che gli avrebbe donato una vita semplice, senza affannose ricerche di pace con sordi nemici, ricerche di pace che avrebbe avuto cura di portare avanti solo con se stesso , ringraziando un Dio che aveva dato a lui la possibilità di procurarsi, in quella sua vita nuova, il cibo per sostentarsi. Il languore dell’abbandonarsi, finalmente, ad un sospiro liberatore. Ma quel languore non venne ascoltato. Fu così il “piemontese fesso e testardo”, come lui stesso si definisce, riprese la sua marcia verso la Patria.

continua