I diversi volti di Caravaggio

Quella parola "valenthuomo" appresso di me
vuol dire che sappi far bene dell'arte sua,
così un pittore "valenthuomo" che sappi depingere bene
et imitar le cose naturali.
(Caravaggio, 28 agosto 1603)

Al contrario di tutti i pittori della sua epoca, Caravaggio non ci ha lasciato autoritratti autonomi, ma si è più di una volta immedesimato nei personaggi dei suoi dipinti.
Incontriamo e riconosciamo il suo viso a diverse riprese, lungo gli anni, e sempre in situazioni drammatiche: da ragazzo, pallido ed emaciato, roso dalla malaria, la malattia che lo porterà alla morte;
a trent'anni, mentre assiste a un omicidio; poco dopo, confuso tra un manipolo di aguzzini, mentre solleva la lanterna durante un movimentato arresto notturno;
poi, mentre assiste al funerale di una ragazza, dominato dal vuoto incombente della morte;
e ancora, negli ultimi mesi della sua breve vita, prima come attonito e impotente testimone dell'assassinio di una fanciulla da parte di uno sgherro impazzito,
infine quando si raffigura come un gigante sconfitto, sfregiato e decapitato.



Bacchino Malato

In assenza di dipinti riferibili alla fase adolescenziale milanese, questa opera viene ritenuta una delle prime di Caravaggio. Per l'aspetto emaciato e debole, nella figura di Bacco viene spesso risconosciuto un patetico autoritratto ai tempi del ricovero in ospedale per un attacco di malaria. Questo "ritratto allo specchio" raffigura un Bacco insolito, inghirlandato non di pampini, come vuole l'iconografia tradizionale, ma di edera simbolo di una giovinezza eterna; la qualifica di malato deriva dal pallore dell'immagine e da una certa aria patita, anch'essa in contrasto con il Bacco della tradizione, allegro e rubicondo.

Martirio di San Matteo

Il martirio-facente parte di un ciclo di tre dipinti caratterizzati dalla sottile definizione della luce-è incentrato sul santo ferito e sull'atletica figura del carnefice che irrompe nella chiesa per trafiggere il sacerdote durante la Messa. Caravaggio intrepreta la scena come un brutale fatto di cronaca nera: il santo cerca disperatamente di difendersi, mentre un doppio urlo lacera lo spazio, quello del sicario e quello del chirichetto che fugge terrorizzato. Nei gruppi di personaggi che si ritraggono sconvolti, Caravaggio ha lasciato anche il proprio più celebre autoritratto, subito a sinistra dello Sgherro uccisore, nell'uomo semi nascosto sullo sfondo, con la corta barba, il viso segnato, con capelli incolti, baffi spioventi e un'espressione tesa e pensosa.

Cattura di Cristo

A suggerire la scelta del soggetto e la sua iconografia, di chiara influenza francescana, fu il cardinale Gerolamo Mattei, committente del dipinto. Cristo, infatti, è ormai completamente rassegnato, immobile, secondo le virtù francescane di "abnegatio" e di "oboedientia". Molti critici hanno interpretato nel personaggio che regge con la mano una lanterna, nell'estremità destra del dipinto, un ulteriore autoritratto di Caravaggio, emulo di Diogene, dall'estenuante ricerca di fede e redenzione.

Morte della Vergine

E' l'ultimo dipinto eseguito da Caravaggio a Roma, rifiutato dai carmelitani per la mancanza di decoro, per l'avere cioè introdotto nelle scene sacre la quotidianità nei suoi aspetti più umili; di fronte al realismo poco ortodosso della Vergine, il clero non comprese il messaggio di sconvolgente umanità trasmesso dal cadavere di una giovane donna annegata dalle gambe scoperte e gonfie. La scena, dominata da un drappeggio rosso sangue, suscita un'impressione di dignitosa povertà e di toccante commozione; gli apostoli piangenti si stringono intorno al letto di Maria, assecondando la diagonale di luce che filtra da sinistra verso destra, conclusa con la figura rannicchiata della Maddalena. Tutto lo spazio è governato da un incrocio di piani e da una giustapposizione di gruppi, messi in risalto dalla luce che colpisce i corpi e fa emergere dall'ombra i dolenti e il volto della Madonna; tra i personaggi in secondo piano è stato individuato un ulteriore autoritratto di Caravaggio, che si ritrae nel personaggio situato dietro all'apostolo dalla veste gialla, con un'atteggiamento distaccato e attonito.

Martirio di Sant'Orsola

L'opera, eseguita a Napoli, è probabilmente l'ultima della carriera artistica di Caravaggio; in essa viene rappresentata Orsola, che come indica il suo stesso nome di origine latina (orsa, forte), affronta con decisione e pacata accettazione il suo martirio. Caravaggio accentua al massimo il contrasto tra la purezza lunare della santa e la smorfia belluina del suo uccisore, avvicinando paradossalmente le figure. Una freccia trafigge al seno Orsola, il cui sguardo scende lentamente verso la ferita e lo zampillo di sangue, senza alcuna manifestazione di dolore e senza drammaticità. La narrazione sembra svolgersi silenziosamente, in uno spazio bruno, indefinito, da cui emergono poche figure dalle cromie terrose; unica tonalità vibrante è il rosso delle maniche del carnefice e del manto della vittima, a dare rilievo ai protagonisti attraverso il consueto uso caravaggesco della luce. Nella figura dell'uomo barbuto alle spalle di Orsola si riconosce l'ultimo autoritratto di Caravaggio.

Davide con la testa di Golia

In quest'opera dipinta da Caravaggio durante il suo secondo soggiorno napoletano, il corpo di Davide, ispirato alla statuaria antica, emerge drammaticamente dallo sfondo scuro, mentre tiene con gesto trionfale ma con un'espressione triste e malinconica la testa del gigante Golia ancora grondante di sangue. Le indagini psicologiche sulla personalità dell'artista hanno messo in luce le indubbie rispondenze tra il senso di colpa e il desiderio di espiazione, che si manifestano nelle opere eseguite dopa la fuga da Roma. In questa tragica immagine si cela un angoscioso autoritratto dell'artista, forse pentito dell'omicidio commesso, che lo aveva portato ad allontanarsi da Roma, o semplicemente della sua vita dissennata. L'autoritratto dell'artista identificato nella testa di Golia, vittima di un Davide inspiegabilmente malinconico, è da intendersi come gesto di autopunizione che sottointende il pentimento dell'artista, il quale con questo quadro chiedeva la grazia per l'omicido commesso.



Sorretto dal suo naturale torbido e tetro, diedesi a rappresentare gli oggetti con pochissima luce, caricando fieramente gli scuri.
Sembra che le figure abitino in un carcere illuminato da scarso lume e preso da alto.
Così i fondi son sempre tetri, e gli attori posano in un sol piano, nè v'è quasi degradazione ne' suoi dipinti:
e nondimeno essi incantano pel grande effetto che risulta da quel contrasto di luce e d'ombra.
Non è da cercare in lui correzione di disegno nè elezione di bellezza.
Egli ridevasi delle altrui speculazioni per nobilitare un'aria di volto, o per rintracciare un bel panneggiato, o per imitare una statua greca:
il suo bello era qualunque vero.
(Luigi Lanzi, Storia pittorica dell'Italia, 1795-1796)