Relazione sui testi: Fabrizio Ago, Musei citati; Pietro Clemente e Emanuela Rossi, Il terzo principio della Museografia. Antropologia, contadini, musei.

"Luogo di curiosità, tuttora, in cui si può trovare qualcosa che non è nel mondo di tutti i giorni". Così Adalgisa Lugli definisce in maniera sintetica ma esauriente una delle istituzioni più influenti ed influenzate della società contemporanea: il museo.

Nato da collezioni elitarie e per un nucleo di pochi fruitori, il museo è diventato nel corso dei secoli uno dei più importanti elementi caratterizzanti dell'espressione della società e della cultura a cui appartiene. La grande popolarità e la concezione moderna di museo nasce dalla fine degli anni Settanta e nel tempo è diventato molto di più di una semplice raccolta di opere d'arte, ma un vero e proprio punto di riferimento culturale di una qualsiasi comunità locale: luogo di incontri, di scambi interculturali, di eventi come concerti, sfilate o presentazioni di libri che non si riferiscono propriamente alle arti visive ma che in una certa maniera manifestano il ruolo centrale di questa istituzione di sintesi di tutti i tipi di manifestazione artistica umana.

Galleria degli Uffizi.

"Musei Citati" di Fabrizio Ago ci vuole evidenziare come il museo sia entrato definitivamente nel nostro quotidiano, nella nostra vita e nella cronaca moderna: gli scrittori di romanzi, di poesie, di testi teatrali, i museologi, gli antropologi, gli esperti, ma anche i semplici "dilettanti" visitatori o turisti non possono fare a meno di citare questa istituzione nei loro brani, dando una propria visione e in certi casi una vera e propria definizione personale e soggettiva di cosa sia per loro oggi il museo.

I brani tratti dal capitolo "Saggistica museale" ci propongono gli atteggiamenti e le sensazioni raccolte dagli esperti (museologi, museografi, storici, critici, antropologi, ecc.) nei loro ricordi di visite passate e nelle loro esperienze di gioventù. Dalla lettura e dall'analisi di questi brani è evidente che non vi è quasi mai un atteggiamento di assoluta neutralità nei confronti del loro ruolo di conoscitori e studiosi, ma la "maschera" con la quale cercano di travestirsi per diventare comuni spettatori serve più per indurli a riflessioni di carattere politico, sociale e psicologico sul ruolo del museo. La riflessione dello specialista, quindi, non diventa mai del tutto imparziale od occasionale, ma risulta in un certo senso fredda e distaccata, proprio a causa della mancanza di schiettezza e di sincerità tipica della natura di un visitatore comune. Quando questa maschera viene a mancare, la visita di un museo si tramuta nella conoscenza di un mondo sconosciuto che si apre alla mente dello spettatore: l'esperto cerca di raccontare quello stupore e quella meraviglia che si provano nello scoprire un universo diverso da come ci si immaginava precedentemente, le aspettative che si progettano prima di affrontare un nuovo evento che vengono confermate o smentite. Perfino i percorsi ideati per accompagnare i bambini nelle visite museali risentono di questa significativa partecipazione psicologica: attraverso favole e giochi si vuole attrarre la mente dei più piccoli, evidenziando ancora una volta il ruolo didattico e comunicativo specifico del museo. Provocare la mente del bambino significa indurlo alla ricerca di qualcosa di nuovo e di diverso, a comprendere i concetti principali per una corretta fruizione delle opere esposte e per eliminare quei tratti di soggezione e di timore che lo inducono ad arrestare la sua indagine conoscitiva; basterà pensare come la "stranezza" dell'arte contemporanea, con le sue forme astratte ed inusuali, spaventi lo spettatore e facciano apparire questo tipo di arte come qualcosa di lontano e difficilmente comprensibile: il museo quindi diventa una sorta di laboratorio didattico per rendere l'opera d'arte più vicina allo spettatore inesperto.

La città che sale, Boccioni.

"Saggistica letteraria" presenta testi scritti da autori non legati al mondo dei musei, ma che trovano in essi uno spunto di riflessione su certe tematiche sulla società e sullo sviluppo culturale di essa. Ad esempio, viene evidenziato come molte volte il museo possa diventare oggetto di speculazioni economiche e di guadagno da parte di certi organizzatori o autorità della comunità locale: esempi eloquenti di questa attività possono essere le miriadi di mostre itineranti che ogni mese compaiono sul nostro territorio italiano in conseguenza dell'anniversario di morte di un certo artista famoso, oppure il sovente e immotivato ripristino da parte di una certa critica (mossa per lo più da sponsor e manager in cerca di facili guadagni) di determinate correnti artistiche passate che vengono rivalutate e ritenute nuovamente attuali e fonte di grande ispirazione per gli artisti moderni. Il museo, a mio avviso, si riduce così ad uno "specchio sul passato" dove vengono persi quegli elementi didattici e di riflessione che sono parte stessa di questo luogo: il visitatore diventa passivo nei confronti delle opere e della propria "sete di cultura", finendo per diventare un "pellegrino" che si prostra di fronte ad una reliquia medievale, succube dei gusti imposti dalle autorità e della sua inconscia ignoranza. Mostre-feticcio dove il comune visitatore è costretto ad una vera e propria "indigestione d'arte", dove non si ha il tempo di gustare appieno la bellezza e l'essenza delle opere e dopo le quali il "povero" turista ricorda solo una minima percentuale dei capolavori che ha visto esposti, e rimane in lui solo un vago ricordo di ciò che ha vissuto e quella piacevole sensazione di pace e di serenità con se stesso che si riassume nella frase "Io ci sono stato". File chilometriche davanti alle biglietterie, percorsi obbligati che diventano dei veri e propri labirinti, negozi di souvenir che vendono le peggiori cianfrusaglie che una qualsiasi persona dotata di buon gusto possa comprare: queste purtroppo sono le caratteristiche che, a mio avviso, possono riassumere una qualsiasi visita ad una mostra moderna. Inoltre questo atteggiamento "passatista" ed estremamente conservatore della cultura occidentale moderna, legato sempre ai soliti nomi di artisti o di correnti artistiche, tende a non prendere in considerazione tutte quelle manifestazioni artistiche straniere come quelle orientali o africane che tanto hanno influenzato in passato gli artisti europei contemporanei (basti pensare a Picasso o Matisse) e tanto ancor oggi possono affascinare molte persone. Tutto questo è sì legato al gusto e agli interessi che cambiano nel corso del tempo, ma non si può certo tralasciare quella componente consumistica e speculativa che, purtroppo, fa parte del mondo in cui viviamo.

Les demoseilles d'Avignon, Picasso.

Nel capitolo "Reportages" vengono presentati vari brani sui musei che derivano da autobiografie di scrittori o altri personaggi illustri. Alcuni di questi racconti si presentano come sorta di diario personale o sotto forma di raccolta di cronache di viaggio, talvolta con vere e proprie descrizioni puntuali e realistiche dei luoghi visitati, mentre altri sono per lo più delle digressioni che l'autore compie sul museo come oggetto di speculazione, attraverso dei veri e propri viaggi immaginari che portano lo scrittore a riflettere su particolari tematiche. Il museo viene visto nella sua estrema quotidianità, di luogo a noi talmente familiare da poterlo paragonare ad altre esperienze umane che in passato abbiamo vissuto: i ricordi di una visita possono far affiorare alla mente sensazioni, odori, pensieri, eventi realmente concreti, oppure emozioni provate in determinate situazioni. L'oggetto in questione diventa però non più il museo, ma l'opera d'arte in sé, che provoca nello spettatore determinate suggestioni e lo portano verso divagazioni e deviazioni improvvise su temi o inchieste sulla condizione umana e sulla società: critiche politico-sociali o sul consumismo becero che esibisce solo mostre-spettacolo, riflessioni psicologiche sullo stato e sulla condizione dell'artista, ma anche vere e proprie riflessioni sul termine "museo" e sul suo significato contemporaneo, come luogo di godimento non più per un'élite o per un gruppo ristretto di persone, ma come istituzione che rientra a pieno titolo negli elementi caratterizzanti della struttura sociale della comunità in cui è inserito.

Piazza del duomo, Pistoia.

In "Narrativa" vengono analizzate tutte le possibili varianti con cui i vari scrittori di romanzi possono presentare questa nostra istituzione culturale. Sono tantissimi gli autori che citano un museo o incentrano la trama di un racconto intorno ad esso, altri invece lo inseriscono come "inciso" nella narrazione, altri ancora lo menzionano solo nel titolo del proprio testo. In questo universo eterogeneo di usi differenti del termine e del concetto di "museo" si possono raccogliere alcune riflessioni che possono trarre degli spunti per ulteriori approfondimenti. Innanzi tutto emerge ancora una volta come l'istituzione museale sia definitivamente entrata nella quotidianità e nell'immaginario sociale e culturale comune. Alcuni romanzi sono incentrati proprio su un museo, che può essere fisicamente reale ed essere il vero centro della storia, oppure può essere immaginario, frutto della fantasia del narratore, contenitore di opere che possono apparire come elementi fantastici e curiosi che si possono animare come se fossero preda di incantesimi o magie, scatenando la creatività dello scrittore. Nella maggior parte dei casi il museo è presente in un romanzo sotto forma di citazione, come pausa nella narrazione, come "riferimento caratteriale", come testimone dello stato d'animo di un personaggio, come luogo raffinato e di eleganza, come prosecutore delle grandi collezioni del passato e deposito della cultura che rivive nel corso del tempo. In altri brani le opere stesse del museo portano l'Io-narrante a determinate riflessioni psicologiche sull'esistenza e sulla propria decadenza mentale e fisica, in un percorso che assomiglia ad un "viaggio dell'anima" dello scrittore e ad una riflessione ontologica sul proprio essere: il museo diventa così un "rifugio segreto" dove le digressioni sulla realtà e sul proprio "Io" diventano centrali. Si può notare, inoltre, come cambi radicalmente la maniera di descrivere un museo e di dare giudizi su di esso a seconda della diversa tipologia di romanzo: ad esempio, i romanzi storici tendono a raccontarci fatti o avvenimenti realmente accaduti intorno a determinati musei reali, ma senza presentare alcun tipo di giudizio soggettivo o individuale da parte dell'autore; i romanzi di avventura e per l'infanzia, invece, ci parlano per lo più di musei immaginari dove succedono episodi fantastici e rocamboleschi, presentandoci il museo come una sorta di "vaso di pandora" da dove scaturiscono eventi straordinari e sorprendenti. In sintesi, possiamo riassumere in pochi concetti questa nuova visione di museo che scaturisce dai testi degli scrittori moderni di romanzi: una visione nostalgica e consolatoria, custode delle radici della nostra società ed elemento fondamentale della nostra cultura; una visione puramente immaginaria, legata alla dimensione del fantastico e del meraviglioso, del museo come luogo al di fuori della monotonia quotidiana, dove si può sognare e vivere esperienze fuori dal comune; una visione del museo come luogo che porta il visitatore ad una sensazione di grande armonia e di serenità verso la conoscenza di un mondo completamente diverso rispetto all'esterno, ad una sensazione di pace con se stesso e con il mondo, di rassicurazione verso il proprio Io e verso la natura, attraverso un grado di riflessione che non trova paragoni in nessun'altra esperienza di vita.

Codice da Vinci, film.

In poesia, nelle canzoni, nelle odi, nelle filastrocche e negli altri componimenti in versi, il museo viene citato e preso in considerazione in pochissime occasioni, ma quando ciò avviene viene proposto non come una realtà concreta, ma ad un livello simbolico molto forte. "C'è un edificio nel buio/ si chiama museo" : Aldo Grassini (membro del comitato direttivo del Museo tattile statale "Omero" di Ancona) con pochissime parole cerca di esprimere quell'inquietudine o, addirittura, quella paura che può suscitare questo luogo per persone non vedenti ed incapaci di fruire normalmente un'opera d'arte. Estrapolando però questi versi dal loro contesto ora citato possiamo leggerli, a mio avviso, in un'ottica universale: Grassini, molto probabilmente, si vuole inserire in quel dibattito sul concetto di museo e sulla disposizione museografica all'interno di esso, che spesso può presentarsi non percepibile con facilità ed immediatezza, trascinando lo spettatore verso un oblio di insicurezza e di incapacità di comprensione. La forza della poesia è proprio questa, la capacità cioè di esprimere più concetti attraverso un numero esiguo di parole e frasi, una capacità che si rifà a quella di sintesi delle arti e del tempo propria del museo. Un parallelismo più interessante e fonte di maggiore riflessione può essere quello che Ago ci introduce fra teatro e museo: due luoghi ormai che fanno parte del bagaglio culturale di qualsiasi persona e che rientrano fra le principali attività di sviluppo della cultura moderna. Il teatro, da una parte, come "arte che pretende di essere la somma e insieme la negazione di ciascun altro modo e mondo della rappresentazione"1, in cui in un unico spettacolo si possono consumare i linguaggi e le manifestazioni di tutte arti; il museo, dall'altra , pretende di essere impareggiabile, esemplare, irripetibile, costituito da oggetti eccezionali ed unici che racchiudono in sé storie, personaggi, particolari avvenimenti storici del passato, e che adesso sono gli unici testimoni del tempo che si è consumato dietro di loro. Museo e teatro, quindi, sono luoghi del divenire, poiché nascono per promuovere un certo tipo di mutamento e di crescita che sintetizza tutte le arti e le racchiude in unico luogo e in manifestazioni originali (si pensi alle sfilate, ai concerti o a qualsiasi altro tipo di spettacolo non direttamente legato alle arti visive che può essere organizzata dentro un museo). Perfino il rapporto tra lo spettatore e lo "spettacolo" si manifesta analogamente sia nel teatro che nel museo: un rapporto critico, ma allo stesso tempo di grande entusiasmo e fascinazione che coinvolge la mente e i sensi, che porta il pubblico ad uno stato di assoluta complicità con ciò che sta vivendo in quel preciso momento. Entrambe queste istituzioni culturali, però, sono vittime ugualmente del mercato e della visione consumistica e speculativa che purtroppo è parte integrante della progettazione e della gestione degli eventi culturali moderni. Molti autori teatrali, come abbiamo visto in precedenza per altri tipi di brani scelti, prendono in esame il concetto e la rappresentazione di museo per giungere a determinate riflessioni di carattere esistenziale o psicologico: Marguerite Yourcenar vede il museo come lo strumento che esprime il tramonto delle mode artistiche; Fugard utilizza il museo come pretesto per esprimere la propria visione sulla caducità e sugli orrori della guerra; Ceronetti, invece,evidenzia quella capacità evocatrice e misteriosa dell'opera d'arte, che appartiene ad un ordine superiore di misticismo e di spiritualità, contrapponendola alla volgarità consumistica della società moderna. In alcuni casi lo spazio dove si svolge la scena diventa un vero e proprio museo, una specie di Wunderkammer cinquecentesca, una camera delle meraviglie nella quale si svolgono delle vere e proprie "rappresentazioni teatrali" che si realizzano come se si trattasse di un vero e proprio museo. Riassumendo, i brani presi in esame nella poesia contemporanea sono essenzialmente referenziali e richiedono al lettore una grande capacità di immaginazione, poiché il museo non è descritto, ma vi si allude per generare determinate riflessioni ispirate dalla magia e dalla sacralità che fanno parte dell'aura di questo luogo; in teatro, invece, troviamo lunghi monologhi che lo associano il più delle volte a un qualcosa di decadente, in rovina, come il rappresentante del disfacimento della cultura, in un ottica principalmente pessimistica, mentre in alcune occasioni è fonte di brevi riflessioni ed aforismi di notazione umoristica e di denuncia sociale.

Museo tattile Omero, Ancona.

Nel capitolo denominato "La voce al pubblico" vengono presentati testi che non fanno parte della narrativa, ma che sono per lo più legati al quotidiano. In tantissimi casi il museo appare nella cronaca e negli articoli delle testate giornalistiche: annunci politici, trafiletti di cronaca rosa, notizie su musei specifici, problemi legati al lavoro che si svolge all'interno delle gallerie d'arte, episodi di cronaca nera che si consumano fra le opere esposte. Anche nelle lettere ai direttori museali si può notare come gli esperti e gli studiosi scrivano principalmente per polemizzare o dibattere su certe scelte o aspetti museografici di specifici musei, mentre la gente comune scrive essenzialmente per protestare su problemi più pratici, come gli orari di apertura e chiusura, i percorsi di visita o gli allestimenti. Perfino in internet si parla dei musei, soprattutto nei blog, i diari personali on-line, nei quali si raccontano le visite a determinate città e si raccolgono le riflessioni che certe persone vogliono rendere pubbliche sulla rete: in genere vengono postati brevi racconti che hanno come oggetto il museo, le sue opere, le aspettative e le conferme sulla visita, i problemi, le notazioni personali e soggettive su questa istituzione. Anche i libri delle firme che incontriamo alla fine di ogni mostra presentano alcune volte piccole osservazioni sugli allestimenti e la disposizione delle opere, che possono essere consigli di miglioramento per gli addetti ai lavori.

"Il terzo principio della museografia" è un'opera che si inserisce pienamente nel nostro discorso sul museo e sul ruolo culturale e sociale moderno che esso occupa all'interno della società. Le opere di un museo sono spesso i superstiti di un processo di conservazione e di perdita che si è protratto nel corso del tempo e che, per varie situazioni e scelte arbitrarie, è diventato ciò che noi possiamo vedere esposto. I musei spontanei della cultura materiale sono un segnale della nostra profonda identità e del nostro sentimento nostalgico di ricerca di ciò che nel corso del tempo ha perso il suo uso ma non il suo valore affettivo ed appare ai nostri occhi come un vero e proprio specchio sul passato e sui nostri ricordi perduti. La decisione di conservare un certo oggetto solo perché ci ricorda una persona cara, un'esperienza vissuta, un momento particolarmente emozionante o semplicemente perché ci piace e ci appare "bello", è assolutamente un'azione che deriva dalla nostra natura di esseri umani e da quel fenomeno tipicamente indotto che è il collezionismo.

Museo Guatelli.

Tempo fa ho avuto modo di ascoltare alla radio una simpatica trasmissione dove il pubblico poteva telefonare in redazione e parlare delle proprie collezioni e delle proprie raccolte private, che molto spesso, addirittura, venivano ereditate da parenti o amici intimi e continuate dopo la scomparsa di questi: figurine dei calciatori, francobolli, bottoni, bustine di zucchero, sassolini di mare, carta per impacchettare i regali e tantissime altri tipi di oggetti di pochissimo valore erano inscatolati nelle cantine o nelle soffitte dei radioascoltatori, che non se la sarebbero mai sentita di gettare nell'immondizia tutto questo patrimonio di ricordi e di testimonianze del passato. Dall'ascolto di questa trasmissione è emerso quella capacità degli oggetti di "acquietare" la nostra memoria, di portarci ad un livello di pace interiore con noi stessi e con il nostro passato: la cultura e il gusto della società cambia in maniera così veloce (soprattutto nell'epoca consumistica di oggi) che solo il pensiero di possedere certi oggetti può portare veramente ad una "catarsi" interiore, ad un senso di completezza e piacere per il solo gusto di godere di certe cose che possediamo.

Nel saggio "La pattumiera e la memoria. La civiltà contadina come epoca" viene introdotto proprio questa problematica, cioè quella di dover affrontare quotidianamente il problema del bisogno di scartare o conservare qualcosa che fa parte della nostra vita. I musei della civiltà contadina esprimono proprio quel processo di trasformazione socio-culturale delle classi popolari e quel completo affiatamento fra gli oggetti che quotidianamente venivano usati per lavorare e i lavoratori stessi. Il lavoro contadino, com'era concepito precedentemente, è andato sempre di più scomparendo nel corso della storia, soprattutto negli ultimi secoli, a seguito dell'industrializzazione e della globalizzazione delle risorse e dei sistemi di produzione. Tutto un universo di tecniche, di opere, di processi, di abilità è andato ormai perduto, come perduta è anche la mentalità e la vita delle campagne e delle famiglie del passato: i musei che raccolgono oggetti del lavoro del mondo agricolo oggi servono proprio a far capire come anche semplici utensili o attrezzi non più funzionanti possano "parlarci" e "spiegarci" a cosa potevano servire e da chi venivano usati, raccontandoci il loro passato e dandoci un piccolo assaggio di cosa potevano significare la vita e il lavoro mezzadrile di non molto tempo fa.

"Pezze e rimasugli: note per un'ermeneutica dell'accomodare" ci introduce, invece, in un'analisi su quella che in passato poteva essere considerata una vera e propria "arte" del riutilizzo, dell'aggiustare e dell'accomodare. La parola d'ordine era "riciclare", non sciupare niente e non buttare via niente: tutto poteva (o, meglio, doveva) essere riaccomodato e riutilizzato. I vestiti dovevano durare anni ed anni e si passavano di padre in figlio o da fratello maggiore a fratello minore, la camicie venivano vendute con il colletto e i polsini di ricambio per sostituire quelli vecchi dopo che si erano usurati e gli stessi materiali utilizzati per produrre i capi di abbigliamento erano addirittura di qualità migliore rispetto ad oggi (basta pensare che al giorno d'oggi un paio di jeans durano al massimo uno o due anni mentre prima un paio di pantaloni si conservavano stagione dopo stagione). Esisteva un vero e proprio culto per l'oggetto in sé, un attaccamento sia fisico che "sentimentale" con quello che si possedeva, anche perché le risorse di una famiglia media dei primi del Novecento già non erano sufficienti all'acquisto dei beni di prima necessità, figuriamoci per il rinnovo stagionale del guardaroba: il "rattoppare" diventava quindi non solo una necessità, ma anche un'azione di estrema creatività e l'oggetto aggiustato era una vera e propria creazione artistica.

Oggi purtroppo si è perso questo estremo attaccamento per le cose che abbiamo, anche perché per la maggior parte siamo circondati da oggetti futili ed inutili, che il tempo consuma velocemente: nell'era della tecnologia e di internet tutto ormai è virtuale, "astratto", quasi irreale, si è persa ormai quella sensibilità per il concreto e per la materialità propria delle cose. L'industria moderna, il commercio globalizzato, la società consumistica e logorata nei suoi principi hanno un continuo bisogno di persone che "gettano via" qualcosa, che non riciclano e non riutilizzano, che non consumano fino in fondo le proprie risorse, che ogni giorno spendono e riempiono le discariche di spazzatura e oggetti che ancora non hanno terminato il proprio uso: la macchina economica mondiale è ormai basata su una circolazione di denaro inarrestabile e la crisi economica che sta affliggendo i Paesi occidentali è proprio causata da una sovrapproduzione di merci che non riescono ad essere vendute per la costante diminuzione del potere di acquisto da parte delle fasce di popolazione più deboli.

Cucinare.

Attinente a questo universo di espedienti e di ricerche sulla conservazione e la perdita è anche la pratica del cucinare. Tutti coloro che come me vivono ogni giorno a contatto con i propri nonni sono a conoscenza dei metodi per riutilizzare i cibi avanzati per creare nuove pietanze; la tradizione della cucina toscana insegna in decine di ricette come preparare timballi con la pasta avanzata, oppure zuppe con i sapori dell'orto e la carne avanzata: i maccheroni con le "briciole" o la zuppa di pane nascono proprio da quell'usanza di riutilizzare il pane dei giorni precedenti. Il maiale era l'animale simbolo di un mondo dove "non si butta via niente", dove nulla doveva essere perduto o inutilizzato: il pane con i ciccioli o i vari insaccati appartengono proprio alla logica del riutilizzo degli avanzi e delle parti meno nobili di questo animale. La novella di Federigo Tozzi "Il porco del Natale" ci racconta la "sacralità" e la singolarità del giorno in cui veniva ucciso il maiale nell'antica tradizione contadina, un giorno speciale, in cui si riuniva tutta la comunità; oggi la carne è un elemento base della dieta moderna, una cibo che si consuma quasi quotidianamente in tutte le famiglie: prima, invece, veniva cucinata solo nelle occasioni speciali, durante le feste o banchetti occasionali e, molte volte, venivano mangiate soltanto le parti più povere dell'animale, mentre quelle più buone erano destinate alla vendita per sopperire alla spesa di altri beni. Tutti queste accortezze culinarie si ricollegano al discorso sull'arte di arrangiarsi e sulla massimizzazione delle risorse: le figure della massaia o del norcino, che stanno oramai scomparendo, erano le vere protagoniste di quest'epoca, dove il gestire le risorse alimentari era di vitale importanza per la famiglia e le comunità locali.

Il Museo Guatelli rappresenta molto probabilmente questo complesso di problematiche e di tecniche che appartenevano al mondo contadino del secolo passato. Gli oggetti legati al mondo rurale e mezzadrile che Guatelli ha collezionato durante la sua vita non sono pezzi rari o preziosi, ma sono cose legate alle vita, al sentimento che qualsiasi persona può manifestare per le cose che possiede: le scarpe, le falci, i martelli, le botti non hanno niente di particolare, non sono pezzi unici, ma rappresentano un passato che serve per capire il presente e prepararci per il futuro, un passato che ci insegna e che ci spiega il lavoro e la vita dei nostri avi e delle famiglie di un tempo. Guatelli era un maestro elementare e, molto probabilmente, ha voluto lasciare questa inestimabile collezione proprio per un fine altamente pedagogico e sociale, un testamento materiale del suo amore per la propria terra e per le proprie origini, una raccolta di oggetti legati al lavoro contadino e non solo. La fondazione di Ozzano Taro non ha eguali in nessun'altra parte d'Italia, sia per il numero di oggetti custoditi sia per il metodo museografico con cui questi oggetti sono esposti: arabeschi di falci, cantine e fienili come luogo di esposizione, cose che si possono realmente toccare, senza che nessun tipo di allarme acustico possa suonare, tutte caratteristiche che ci riportano a quella ricerca di concretezza nella realtà e nella nostra vita di cui abbiamo parlato fino ad ora. La polvere, i ragni, i tarli fanno parte di questa affascinante ambientazione, un vero e proprio viaggio nel passato e nell'opera creata dallo stesso Guatelli, attraverso anni ed anni di acquisizioni fatte dopo la fine della sua carriera scolastica: una raccolta che crebbe e si potenziò negli anni '80, quasi eclissata dalla critica di allora, che la considerava solo un'insieme di cianfrusaglie e di oggetti logorati dal tempo e dal lavoro. A Guatelli interessa l'oggetto in sé e per sé, la sia praticità manuale, la sua storia evolutiva, l'ingegno tecnico sviluppato dal lavoro contadino mezzadrile derivato dalla propria esperienza di vita.

Museo Guatelli.

"Luogo di curiosità, tuttora, in cui si può trovare qualcosa che non è nel mondo di tutti i giorni": può essere considerata inappropriata questa definizione per il Museo Guatelli? Assolutamente no, anzi, forse può essere altamente riduttiva se non viene preso in considerazione che questa raccolta non deriva da un accrescimento di collezioni di secoli precedenti, ma che è stata costituita durante la vita di un uomo, in pochi decenni, attraverso uno sforzo immenso se si tiene conto delle decine di migliaia di oggetti esposti.

Le cose ci parlano della nostra identità passata, della nostra vita che si evolve, della cultura che cambia radicalmente in pochissimo tempo, del progresso che ci fa dimenticare in fretta chi siamo e quali sono le nostre origini, che ci fa cambiare gusto per certe cose e acquisire maggiore sensibilità per altre: un museo che raccoglie opere d'arte che sono state definite tali solo per il giudizio di qualche critico o studioso non è sufficiente per quel fine pedagogico e formativo che deve necessariamente fornire. Il museo deve soprattutto portare lo spettatore ad un grado di percezione e di riflessione maggiore rispetto alle altre istituzioni culturali, a risvolti psicologici su ciò che il passato rappresenta per noi e per la nostra società, affinché anche il più inesperto visitatore si possa sentire parte integrante della cultura e dello sviluppo della civiltà contemporanea.